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Accudimento e attaccamento

Accudimento e attaccamento

Quali sono le caratteristiche di un buon legame tra genitori e figli?
Nello studio del benessere psicologico e della psicopatologia sempre più si fa riferimento alla Teoria dell’attaccamento” di John Bowlby: a partire dalle sue ricerche sui primati e poi sui bambini di pochi mesi questo ricercatore postula l’esistenza di una tendenza innata a richiedere aiuto e a ricercare la vicinanza protettiva di una figura ben conosciuta ogni volta che si vivono situazioni di pericolo, dolore, fatica o solitudine.

Per i neonati e i bambini le figure di attaccamento sono i genitori, ma successivamente può esserlo qualsiasi persona ben conosciuta e disponibile che nel momento del bisogno venga percepita come più saggia e forte. A questo bisogno innato ne “corrisponde” un altro complementare, ovvero il sistema di
“accudimento”, che Bowlby definisce come la disponibilità e la capacità della risposta materna (o della figura di cura) alle richieste di cura del piccolo.

I comportamenti di attaccamento del neonato/bambino piccolo verso la sua figura di cura – vedi succhiare, aggrapparsi e seguire la madre vicina, sorridere e piangere – hanno lo scopo di assicurare la vicinanza della madre e di proteggersi dai pericoli. Questi comportamenti vengono messi in atto in particolare quando vi è una separazione o minaccia di separazione con la mamma e possono essere placati/estinti con la sua vicinanza o quella di altre figure importanti che rispondono al bisogno di rassicurazione.

Secondo Bowlby sono proprio questi comportamenti istintuali che creano le basi per una relazione tra madre e figlio.
Tuttavia c’è di più: sembra ormai certo che
il tipo di relazione bambino-figura di attaccamento che si struttura sia fondamentale per tutta la vita perché crea le fondamenta per la visione di sé, dell’altro e delle relazioni che, in particolare quando stiamo male e abbiamo bisogno di aiuto, guidano e spiegano cosa faremo e come ci sentiremo.

È come se in base alle esperienze più volte vissute e sperimentate quando eravamo molto piccoli con chi si prendeva cura di noi in particolare in situazioni di bisogno (paura, dolore, bisogno) noi formassimo uno script, un copione, un modello, uno schema di noi, degli altri e delle relazioni che ci accompagnerà e guiderà per il resto della nostra vita. Questi copioni avranno una certa solidità e consistenza e non sarà facile “cambiare idea”, quindi questo “stile di attaccamento” tenderà a mantenersi, confermarsi e consolidarsi.

Se il bambino fa esperienza di un buon attaccamento-accudimento si formerà memorie e aspettative in cui le sue esigenze di aiuto incontrano una coerente risposta positiva da parte dell’altro.
Si sentirà autorizzato ad esprimere i propri disagi e degno di attenzione nelle difficoltà.
Avrà un’idea dell’altro come affidabile, benevolo, disponibile, presente, confortante.
Se infatti chi si prende cura del bambino sa sintonizzarsi sui suoi bisogni con sensibilità e attenzione, li accoglie e cerca di capirli con disponibilità e intelligenza, li autorizza e rispetta con sensibilità e disponibilità, tenta di rispondervi in modo coerente e adeguato con interesse e calore… questo bagaglio di esperienze sarà una “sicurezza” con cui il bambino affronterà il mondo anche da grande.

Cosa succede invece se le cose non vanno proprio così?
Ad esempio se di fronte al bisogno di aiuto, cura e attenzione
il genitore generalmente non risponde o lo fa molto poco, o esprime svalutazione, critica o ironia e banalizzazione o insofferenza e fastidio?
Il bambino che sperimenta queste risposte si “costruirà” a partire da queste esperienze delle aspettative di rifiuto delle proprie esigenze di aiuto e imparerà a reprimerle e/o ad “arrangiarsi”. E questo non solo con la mamma ma in generale con gli altri. Sarà portato a sviluppare un’idea di sé come indegno dell’attenzione protettiva dell’altro (scarsa amabilità e valore personale) e un’idea dell’altro come rifiutante, lontano, non presente e disponibile (scarsa disponibilità e affidabilità). In situazioni di cura abituale di questo tipo si parla di “negligenza emotiva”.

Altre volte può succedere che con una certa “sistematicità” il caregiver sia in difficoltà rispetto ai bisogni di cura e attenzione del bambino, come fosse in conflitto rispetto alle proprie e altrui esigenze, e risponde per questo con incostanza e incoerenza alle richieste di cura: alcune volte sì, altre no, alcune volte c’è ed aiuta, altre si allontana e risulta trascurante. Al bambino arrivano pertanto informazioni discordanti e ambigue sulla cura e questo può comportare la sedimentazione di un’idea del genitore/altro come imprevedibile rispetto alla richiesta di cura e aiuto. Si aspetterà in generale una risposta positiva ma anche che tale risposta venga improvvisamente e imprevedibilmente a mancare.
Imparerà probabilmente quindi “ad alzare il volume”, ovvero a mantenere “iperattivata” la richiesta vicinanza e attaccamento per garantirsi il perdurare della presenza del genitori/altro. Di base svilupperà una rappresentazione di sé sia come degno di attenzione – perché l’ha sperimentata, la sa possibile – sia come indegno di risposte benevole nel momento di difficoltà – perché gli è stata anche negata o tolta in modo imprevedibile e incostante (ambivalenza).

Vi sono poi varie altre situazioni di cura/accudimento molto disturbate, talune anche molto drammatiche e traumatiche, che a loro volta creano modelli di relazione particolarmente problematiche, con conseguenti creazioni di rappresentazioni di sé e dell’altro e cicli di interazione spesso patologici.

 

Come cercare di avere un buon accudimento?


Proviamo a fare degli esempi concreti.
Sorridiamo ai nostri figli, li coccoliamo e accarezziamo? Quanto e quando?
Li prendiamo in braccio o abbracciamo, in particolare se/quando sono in difficoltà?
E con che messaggio verbale e non verbale?

Guardiamo e poniamo domande sul disegno che hanno appena fatto, sui compiti che li preoccupano per domani, sul tema che ha ricevuto un buon voto o sulla storia che hanno scritto?
E cosa comunicano davvero le nostre domande?

Ci ricordiamo il nome del loro peluche, del loro migliore amico, della maestra che più fa loro paura e della professoressa che stimano?
Che immagine arriva loro di se stessi dal nostro comportamento verso di loro?

Ci accorgiamo che hanno l’aria triste e che quel giorno di scuola o quell’allenamento potrebbe essere stato molto difficile?
Guardiamo nostra figlia negli occhi?
E con che sguardo e messaggio rivolto a lei?

Un’altra domanda che potremmo farci è: che priorità hanno i nostri figli per noi?
Sia in termini di importanza emotiva e valore, sia in termini di tempo di azione e pensiero che dedichiamo a loro?

Cerchiamo di essere e dimostrare di essere interessati e affascinati a loro. A prescindere da tutto il resto della nostra vita.
Che non siano i grandi “invisibili” o visti “solo a condizione di” della nostra vita… perché questo potrà non solo far loro male in quel momento, ma anche nella relazione con noi, se questo sarà spesso il nostro atteggiamento e comportamento con loro, e oltre a questo tale esperienza di attaccamento-accudimento diventerà una sorta di base, di prototipo, di schema che guiderà le loro future relazioni.

Essere genitori… onere e onore!
A noi cercare che sia davvero anche un onore, mettendo a fuoco che tipo di genitore vorremmo poter essere e quali atteggiamenti e comportamenti dovranno diventare sempre più i nostri.
Quali sono le esigenze dei nostri figli, che sono diversi da noi e fra loro, e come possiamo fare per aiutarli, mantenendo disponibilità e capacità di metterci in discussione e di cambiare per il loro e nostro bene se vediamo che la relazione “non funziona”.
Cerchiamo sempre di “agire” da genitori, con consapevolezza, scelta e impegno, non solo di “reagire”.

Gli adulti siamo noi: cerchiamo di agire come tali, nella relazione con loro siamo noi che abbiamo una maggiore responsabilità e “potere”.

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